L’arte del lasciar andare

Ricordo ancora, nonostante i 15 anni passati, la sensazione della prima volta in cui vidi mio figlio in braccio alla nonna. Non era semplice gelosia, ma una sensazione viscerale di spazio violato, di segreto divulgato, di qualcosa di intimo e privato che non era più soltanto mio. Dopo mesi in cui solo io sapevo quando aveva il singhiozzo, quale musica lo calmava, come cambiava il suo movimento se camminavo  o se ero in macchina, mesi in cui avevamo costruito un dialogo sussurrato, fatto di mani che si sfioravano, corpi che si percepivano dentro e fuori di me, al di là della vista, in un soffuso mondo di sensazioni e fisicità, ora mio figlio era nel mondo, e il mondo sarebbe entrato in lui. Improvvisamente non mi sentivo più così generosa come quando permettevo un leggero tocco sulla mia pancia perchè anche altri da noi due potessero intuirne i movimenti. Improvvisamente capii che ora la nuova sfida era imparare a lasciarlo andare, o essere condannata ad una vita di difesa del territorio. Una bella lezione per una che non lasciava andare niente, relazioni, oggetti, ricordi… ora potevo sfruttare questa fantastica opportunità, crescere con mio figlio, imparando ad affidarlo alla Vita.

Ma che fatica…. che lacrime vederlo mangiare per la prima volta, sentendo che ormai non gli bastavo più solo io, e che chiunque avrebbe potuto nutrirlo…. e che sensazione di stordimento il primo giorno di asilo, quando mi rifugiai a casa di un’amica con bambina piccola perchè tutto quel vuoto non mi sopraffacesse… E così via, così via, così via, in mille piccoli scogli quotidiani, compreso il lasciarlo correre, arrampicarsi sugli alberi, vederlo essere spericolato guardandolo da lontano, affidandolo al Grande Spirito e cercando di non trasmettergli tutte quelle ansie in cui sono stata cullata nell’infanzia, in tutti quei “non ci riesci” che mi hanno paralizzata per tanto… Con lui potevo lasciar andare, ed inventare un’altra me, la mamma coraggiosa di un figlio libero, e potevo fidarmi perchè lui imparava a fidarsi di se stesso, delle sue capacità e dei suoi limiti, che trovava da solo, per poi tornare da me.

E poi costruisci un mondo di relazioni che ruotano intorno ai tuoi figli, le mamme della scuola, i maestri, altri genitori, il tuo mondo ruota lì intorno, hai ricostruito uno spazio più allargato, ma in cui comunque tu ti muovi, conosci, sai, e i tuoi figli sono ancora dentro di te, solo in uno spazio più grande, meno intimo, certo, ma sempre tuo. Ma queste creature non si fermano, vanno avanti, e iniziano a fare sport, a creare legami diversi, e un giorno capisci che quando sono in campeggio con la nonna creano relazioni con ragazzini che tu non hai mai visto, esiste un mondo di cui tu non fai parte, se non perchè tornano a casa e ti travolgono di racconti. E tu li guardi, divisa tra la nostalgia di quando ti tenevano per mano per la strada e l’orgoglio di vederli diventare individui, perfetti, meravigliosi, completi, e altro da te.

E arriva il giorno del liceo, dei compagni che non conosci, dei professori che vedi la prima volta dopo settimane di scuola, delle materie che lo appassionano e di cui sa già qualcosa più di te, delle prime volte a mangiare la pizza con “loro”… ma chi sono “loro”? Li senti nominare, li vedi fuori da scuola, ma non sono più gli amichetti che venivano a casa a far merenda. Eppure lo guardi, ed è felice, entusiasta, si sta lanciando nel mondo con quel fuoco, quello spirito da coyote che gli avevi augurato… E’ lì, quel giovane guerriero, con quel corpo che si allunga a dismisura, e quello sguardo lanciato nel futuro, e un giorno ti fa ascoltare un gruppo musicale che non hai mai sentito, ti consiglia un libro… e tu hai imparato a lasciar andare. E il premio per entrambi è avergli creato un posto dove tornare, dove può sedersi sul divano e appoggiarti la testa sulle gambe. Un posto dove siamo due persone che si guardano negli occhi, diverse, uniche, irripetibili, ma con un legame speciale che sarà sempre solo nostro.

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